La 65° Assemblea Generale delle Nazione Unite, tenutasi a New York dal 23 al 30 settembre scorso, ha rappresentato il momento finale di un anno intricato e per molti aspetti privo di risultati tangibili per gli affari multilaterali della diplomazia mondiale. Molti analisti sono rimasti con l’amaro in bocca visto che problemi concreti, dalla riforma del sistema ONU, caldeggiata anche dal Ministro Frattini proprio dal pulpito del palazzo di vetro, alla ripresa di negoziati diretti in Medio Oriente, risultano chimere di difficile raggiungimento anche per i più ottimisti. Il risultato non può essere che una perdita progressiva di credibilità dell’intera macchina onusiana ancora arroccata sull’anacronistico sistema che vede il suo un organo politico, il Consiglio di Sicurezza, tentare goffamente di offrire certezza di applicazione al bistrattato diritto internazionale vigente e preservare i propri interessi particolari. Caso Flottilla docet. Non stupisce che Foreign Policy, autorevole rivista statunitense di politica internazionale, si sia soffermata più su un’analisi dettagliata dei costosi abiti sfoggiati dai ministri e capi di stato chiamati a parlare, piuttosto che sui contenuti dei loro discorsi. In un clima, quindi, tutt’altro che positivo nelle aspettative quello che brilla è un doppio incontro bilaterale tenutosi proprio nel sacro tempio del multilateralismo. Il 23 settembre il Presidente Obama, a margine del suo intervento, si incontra in camera di consiglio con il suo parigrado cinese, Wen- Jiabao. Lo stesso incontrerà, poi, i top-business nordamericani in un’altra sede. Le relazioni sino-statunitensi dell’ultimo anno sono state, in realtà, fittissime e quest’ultima occasione d’incontro ha sortito due principali effetti: il primo quello di far passare in secondo piano i contenuti del messaggio presidenziale che Obama ha consegnato alla platea dell’Assemblea Generale e il secondo quello di indurre una breccia di ottimismo tra gli analisti finanziari del blocco occidentale che speravano in una definitiva e fruttuosa risoluzione dell’annosa questione delle fluttuazioni dello yuan cinese; un ottimismo, in verità, subito represso. Dalla cosiddetta diplomazia del ping-pong che ha segnato l’immaginario collettivo dell’opinione pubblica d’inizio anni settanta, le relazioni sino-statunitensi, infatti, sono andate sempre più normalizzandosi su standard ben precisi che offrono uno schema interpretativo molto utile anche per questo incontro e per i suoi più prossimi sviluppi. Nel dicembre del 2003, infatti, a seguito dell’ incontro tra lo stesso Wen e l’allora presidente G.W. Bush, tenutosi nelle sale dell’American Bankers Association di New York, il premier cinese ha elencato i cinque principi che le due amministrazioni hanno convenuto essere fondamentali nella fissazione di canoni di relazioni diplomatiche tra le due sponde del pacifico. Il più importante è sicuramente quello del “do not politicize economic and trade issues” mutuato, nei fatti, anche dall’amministrazione democratica. Anche in questo caso Obama e Wen si sono ripromessi di non creare scompiglio politico ma di essere due interlocutori che si riconoscono l’un con l’altro, ripuliti dalle rispettive idiosincrasie ideologiche. Quanto questo sia vero è difficile appurarlo perché, alla vigilia delle elezioni di Mid-term del Congresso, negli USA, il “problema-cinese” sembra quanto mai un “political issue” su cui i democratici giocano parte delle loro chances di rielezione. Oltreoceano, infatti, risultano ingenti le pressioni dei sindacati e del tea party sulla questione import-export da e con la Cina. Sul suolo nordamericano, comunque, non mancano autorevoli voci di dissenso sulla lobby che l’amministrazione Obama esercita, da più di un anno, sul governo cinese circa la questione della valuta. Da Yale ad esempio, il prof. Paul Kennedy, uno degli storici più illustri degli USA, condanna le scelte dell’amministrazione in carica adducendone una motivazione geopolitica. Negli ultimi anni, assistiamo, nei mercati finanziari, ad una tendenza dei trader ad acquistare titoli in renminbi invece che in dollari e meno dollari vuol dire anche meno influenza internazionale da parte degli States. È senz’altro un momento cruciale per le relazioni diplomatiche tra i due paesi e per le conseguenze che queste avranno sui prossimi assetti geopolitici. Dal novembre del 2009, si registrano almeno quattro incontri ufficiali cadenzati a distanza di pochi mesi l’un con l’altro. Negli ultimi due, Pechino e Washington si sono riavvicinati, in particolare grazie all’incontro di fine giugno tra il presidente cinese Hu Jintao e Obama da contorno al vertice del G8 e del G20 in Canada. A margine, però, di questa fitta dialettica fatta di cortesie diplomatiche sui tanti temi in agenda che nel recente passato avevano creato non poche frizione (crisi del nucleare iraniano, vendita di armi a Taiwan e la questione tibetana) però la situazione non è sostanzialmente cambiata e le richieste americane sono risultate nulle sulla questione più spinosa: il tasso di cambio dello yuan. Per quanto ci siano stati momenti di enorme collaborazione tra Washington e Pechino negli ultimi mesi e la votazione delle sanzioni contro l’Iran in seno al TNP del maggio scorso ne sono una prova, gli sviluppi di settembre non hanno fatto altro che aumentare il senso di frustrazione a stelle e strisce e, conseguentemente, innalzare il livello di guardia del pericolo protezionista nell’intellighenzia economica statunitense. Le promesse di giugno del “nonno” Wen, come è definito in patria l’amatissimo premier cinese, di rivalutare il renminbi sono state vane e ne è seguita una “battaglia di comunicati stampa” con toni accesi e fermi delle due amministrazioni che si sono ancorate su posizioni distinte che molti hanno visto già tramutarsi in una contrapposizione commerciale propriamente detta quando, nell’ultimo giorno di settembre, il Congresso ha approvato una serie di dazi sulle merci d’importazione di matrice cinese. Wen comunque, anche in quest’occasione, si è sempre dimostrato fermo nel respingere un apprezzamento più veloce del renminbi per tutelare la stabilità interna della Cina: la sua argomentazione più importante è contenuta in quei 10.5 punti percentuali che corrispondono al tasso di crescita annuo del PIL del suo paese. In verità è ormai da tre mesi che la Banca Popolare Cinese sta lasciando salire, seppur lievemente, il valore della sua moneta sottovalutata, ma l’apprezzamento è considerato troppo lento e insufficiente dagli Stati Uniti: secondo le stime del Fondo Monetario lo yuan è sottovalutato del 27%, secondo altri economisti addirittura del 40 per cento. In un quadro, dunque, in cui sono gli States ad avvertire la minaccia derivante dai dati di crescita esponenziali dell’economia cinese (che hanno segnato il sorpasso della stessa ai danni del Giappone, promuovendola a secondo colosso economico mondiale), non stupisce che i vertici nordamericani abbiano deciso di riunire i top-manager delle maggiori industrie statunitensi (Indra K. Noovi, ceo di PepsiCo, Bill Gates ai capi di Goldman Sachs e JPMorgan Chase) nelle sale del Walford Astoria Hotel di New York aprendo le porte ad un franco contraddittorio con il convenuto Wen. Una sorta di diplomazia dell’export, appunto. Il moderatore dell’incontro è stato Henri Kissinger, padre della relazioni sino-americane ed oggi sostenitore di un nuovo ordine globale a cui, dice, gli statunitensi non devono mancare l’appuntamento da padri fondatori. Sembrerebbe un tentativo della corrente più realista e lungimirante dell’intellighenzia nordamericana di trovare un equilibrio che dal lato prettamente economico possa diventare, sul lungo periodo, anche geo-politico. Gli analisti, infatti, indicano il 2020 come l’anno del sorpasso della Cina ai danni dell’ economia statunitense; quel che comporterà è verosimile sostenere possa essere un conseguente riequilibrio dell’intero assetto geopolitico mondiale. Ad oggi spaventa una Cina primo socio commerciale del Brasile e da quest’anno primo investitore nel gigante sudamericano con 10mld di dollari d’investimenti previsti, primo paese importatore di risorse petrolifere dell’Iran; preoccupa poi la tendenza di crescita dei dati inerenti il commercio con i paesi dell’ASEAN e come importatore di risorse dai paesi africani. Inoltre, le immense riserve valutarie accumulate dall’Impero e stimate in circa 2.000 miliardi di dollari aiuterebbero le banche nella concessione di prestiti ai colossi finanziari cinesi che sono pronti a reinvestire, infatti, proprio in quei paesi e in quelle economie in via di sviluppo che una volta erano a totale appannaggio degli investimenti statunitensi; da qui, il passo di un declino politico, che gli USA non possono né vogliono permettersi, sarebbe molto breve. È un passaggio epocale che va trattato, dal gigante in panne a stelle e strisce, con la dovuta cautela soprattutto perché la faciloneria guascona di un tempo deve lasciar il passo ad un partenariato strutturato, maturo e consapevole che la lancetta dell’equilibrio potrebbe spostarsi, ad ogni minimo errore di valutazione, verso l’altra sponda del Pacifico.
* Francesco Saverio Minici è dottore in Sistemi di comunicazione nelle relazioni internazionali (City University of New York)