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Channel: Relazioni internazionali – Pagina 237 – eurasia-rivista.org
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Referendum Costituzionale in Turchia: Tempo per il dialogo

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Il 12 settembre scorso, 49 milioni di cittadini Turchi sono stati chiamati alle urne per esprimere la loro opinone su un pacchetto di riforme costituzionali che incideranno fortemente sull’assetto istituzionale del paese. Il 57,9% ha indicato “evet”, si, contro un 42% di “hayir”, no. L’affluenza alle urne è stata molto elevata, pari al 77% della popolazione, anche perchè il voto era obbligatorio, pena il pagamento di un’ammenda di 22 lire turche- circa 12 euro.

La data scelta per la chiamata referendaria è una data densa di significato per la Turchia. Il 12 settembre si festeggia, infatti, il trentennale del colpo di stato militare guidato dal generale Kenan Evren, di cui l’attuale Costituzione, promulgata nel 1982, è figlia. Il colpo di Stato del 1980 è stato il terzo ed ultimo nella storia repubblicana turca, e probabilmente il più sanguinario  (vedi  European Election Monitor, 12 settembre 2010): circa 5 000 persone hanno perso la vita, 6 000 sono state imprigionate, 200 000 sono state messe sotto processo, 100 000 private della nazionalità, centinaia di migliaia torturate. Il colpo di Stato era volto a reinstaurare la Repubblica basata sulla tradizione kemalista di cui l’ordine militare si considera l’erede e il custode.  La Carta costituzionale approvata del 1982 si basa sui principi Kemalisti fra cui spiccano il secolarismo e il nazionalismo riconosciuti nel preambolo e nell’arti 1 della Costituzione. Quest’ultima conferisce un forte potere alle forze armate, in particolare attraverso l’istituzione del Consiglio Nazionale di Sicurezza,  dove i vertici militari rivestono un ruolo predominante (art. 118 cost. ), e dota la Magistratura di forti poteri di controllo di legittimità sugli atti normativi e sugli atti degli organi istituzionali e politici (artt 149-154) poteri che la Corte ha negli anni interpretato ed utilizzato in maniera estensiva.  Vi è  largo consenso sulla necessità di modificare la legge fondamentale del 1982, assai lontana dagli standard democratici occidentali, in particolare in riferimento alle tutele dei diritti civili, in specie delle minoranze. Spinte in tal senso sono giunte insistentemente anche dall’Unione Europea, come una condizione necessaria per progredire sulla via dell’adsione. Altresì, il pacchetto di riforme elaborato dal Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), partito filo islamico al Governo guidato da Tayyip Erdogan, è stato fortemente osteggiato dai partiti nazionalisti e filo curdi.

Le modifiche proposte riguardano 26 articoli della Costituzione, principalmente mirano a riformare gli organi giudiziari e a riconoscere un’ampio ventaglio di diritti civili, fra cui il diritto allo sciopero, diritti alle pari opportunità, diritti dell’infanzia e degli anziani. Le disposizioni più controverse e dibattute sono quelle relative ai rapporti fra la giustizia civile e quella militare e le disposizioni relative alla composizione e al funzionamento della Magistratura. In particolare viene previsto che i militari possono essere processati dai tribunali civili per reati particolarmente gravi e i Generali responsabili del colpo di Stato del 1980 vengono privati dell’immunità loro riconosciuta dall’art.15 della Costituzione – disposizione più simbolica che altro in quanto sono già decorsi i termini della prescrizione di reato. Per quanto riguarda gli organi della Magistratura, le riforme previste riguardano la Corte Costituzionale e il Consiglio Superiore della Magistratura, circa la loro composizione e la nomina dei loro membri. Vengono alzati i componenti rispettivamente da 11 a 17 e da 7 a 22, ed è stato aumentato il numero di membri di nomina parlamentare e presidenziale.

Il pacchetto è stato sottoposto a votazione parlamentare all’inizio dell’anno. Nella votazione del 7 maggio scorso la proposta ha raccolto 330 suffragi su 550, inferiori a quelli necessari per essere adottati dalla Camera, ma sufficienti a proporre il quesito referendario. La disposizione volta a limitare il potere di scioglimento dei partiti politici della Corte Costituzionale- potere reiteratamente utilizzato in questi anni- non è invece stato oggetto di referendum non avendo superato, per tre voti, la soglia di sbarramento. Il maggiore partito di opposizione, il partito Repubblicano per il Popolo (CHP) ha adito la Corte Costituzionale circa la legittimità della proposta.  La Corte ha cancellato solo parte delle riforme contenute nel pacchetto, in particolare alcune disposizioni relative alla nomina dei giudici che la compongono- esercitando di fatti un controllo di sostanza e non solo di forma (come presvisto all’art.149 cost.), suscitando critiche da tutte le componenti politiche. Il CHP ha infatti criticato la promozione del ricorso referendario, mentre il partito promotore ha accusato la Corte di utilizzo partigiano dei propri poteri, per salvaguardare le sue prerogative.

L’opposizione al pacchetto di riforme è stata dura e portata avanti trasversalmente dal partito CHP,  kemalista di centrosinistra, il MHP- nazionalista di estrema destra, il BDP- partito filo curdo, il DSP e il DP formazioni di sinistra (si veda Eurasia-rivisa di studi geopolitici, 9 settembre 2010). Anche la società civile è stata fortemente divisa: molte ONG curde si sono schierate per il si, mentre la TUSAID (confindustria turca) ha dimostrato grande freddezza verso l’iniziativa governativa e ha lasciato libertà di voto.  Il 42% di dissensi è un dato da non sottovaluare e mette in evidenza una profonda frattura sociale e politica sul futuro del paese. Indagare le ragioni del dissenso è indispensabile per comprendere e valutare i termini di questa frattura e il significato del risultato elettorale.

I principali partiti di opposizione, il CHP e il MHP, condividno la maggior parte delle riforme proposte, ad eccezione di quelle riguardanti il controllo delle istituzioni legali. Il potere del Governo e del Presidente della Repubblica sulle istituzioni giudiziarie permetterebbe all’AKP di posizionare i suoi simpatizzanti nei ruoli chiave e di aumentare il controllo sui suoi principali avversari istituzionali, ovvero appunto la Corte Costituzionale e le sfere militari-Kemaliste, accrescendo così il suo potere politico. Per l’opposizione la riforma costituzionale minaccia dunque la separazione dei poteri e rimette in pericolo la laicità dello Stato. In tale ottica il referendum pare essere l’ultimo colpo di uno scontro fra i partiti filo islamici e le frange kemaliste che perdura dalla metà degli anni ’90. L’AKP è l’erede del filo islamico Refah Partisi apparso sull’arena politica nel 1995 fino al 1997 quando, con sentenza del 21 maggio 1997 fu disciolto dalla Corte Costituzionale per “essere un centro di attività contrarie al principio del secolarismo”. Nonostante l’AKP abbia assunto un profilo assai più moderato rispetto al Refah Partisi , presto è entrato in contrasto con il Consiglio Nazionale di Sicurezza, per le sue attività islamiche. Proprio in quegli anni il “conservatorismo religioso” divenne la  “prima minaccia strategica” nazionale, sostituendo il “terrorismo separatista” di matrice curda (Hamit Bozarslan, 2006). Lo scontro è continuato, a volto più o meno scoperto, da quando l’AKP ha trionfato alle elezioni del 2002. Uno scontro di particolare visibilità è stata la nomina del Presidente della Repubblica, Abdullah Gull, candidatura voluta dall’AKP ed osteggiata dai vertici militari; in quell’occasione questi ultimi “cedettero” per evitare la paralisi politica del paese. Pochi anni più tardi, lo scontro si spostò nelle aule giudiziarie: nel 2008, l’AKP fu sottoposto al verdetto della Corte Costituzionale con l’accusa di attività anti-laiche. Nei primi mesi del 2010, una pesante coampagna di arresti ha colpito i veritici militari, accusati di pianificare un di colpo di Stato.

Come sintetizza il Times, i Turchi restano scettici sulle riforme, non tanto per il loro contenuto quanto per i sospetti sull’uomo che li conduce e il suo passato islamista, che gli ha fatto guadagnare il soprannome di “Sultano Erdogan”.

Il partito filocurdo, il BDP,  e il Partito dei Lavoratori per il Kurdistan (PKK), si sono schierati per il boicottaggio del referendum, rivendicando l’assenza di disposizioni significative volte a riconoscere le richieste di maggiore autonomia politica e culturale. La trentennale guerra fra il governo e il PKK è ancora lontana dal trovare una soluzione e sta evolvendo in una nuova fase di scontro  sull’arena politica e di ritorno alla violenza (si veda Eurasia-rivista di studi geopolitici, 16 agosto 2010). Questo referendum è stata una nuova occasione per attirare l’attenzione sulle rivendicazioni del popolo curdo. Da diversi mesi si registra l’aumento di atti di violenza, tant’è che durante la votazione è stato mantenuto alto lo stato di allerta e a ragione considerando che hanno avuto luogo diversi scontri. Di certo, quella curda resta ancora una delle principali questioni da affrontare per poter assicurare l’instaurazione di una democrazia stabile.

L’Unione Europea ha salutato con favore la vittoria del “si”, considerandolo come un primo importante passo di un processo di democratizzazione del Paese. In effetti le riforme costituzionali sono state presentate dal Presidente Erdogan come  il passaporto per l’UE e per spianare le relazioni con gli Stati Uniti. La politica estera del governo Erdogan ha mirato in questi anni a fare della Turchia una potenza regionale nel Medioriente. Con tale obiettivo ha condotto delle politiche volte a stringere legami strategici ad Oriente ed Occidente. Ad est negli ultimi mesi ha lavorato per concludere degli accordi politici ed economici con la Siria, l’Iran e l’Iraq (Eurasia Daily Monitor, 16 ottobre 2009). Ad ovest, considerati i tesi rapporti con gli USA, con i quali vige un clima di sfiducia reciproco, la via dell’avvicinamento all’UE è la via maestra per riacquistare una posizione di prestigio fra le potenze occidentali. In verità l’adesione all’UE pare assai improbabile,  quantomeno in un breve o medio periodo, e la stessa opinione publica turca pare esserne cosciente. Come mettono in evidenza recenti studi condotti parallelamente da due centri di ricerca – il Marshal German Found e il  Pew Research Center’s Global Attitudes Survay- (si veda Today’s Zaman, 27 Settembre 2010), il favore dell’opinione publica nei confronti dell’adesione o della cooperazione con L’Unione Europea è più che dimezzata, mentre di molto si è accresciuto il favore verso il rafforzamento dei legami con l’est. Tale dato può essere utile per una valutazione sugli esiti referendari.

In effetti il voto si è principalmente connotato come un voto di fiducia verso il Governo dell’AKP, soprattutto in vista delle prossime elezioni nel 2011. Un chiaro indicatore è il modo in cui è stata condotta la campagna referendaria. Nessuna delle parti ha cercato di spiegare nel dettaglio le riforme sottoposte a quesito referendario, preferendo argomentare il “si” o il “no” attraverso slogan e facendo leva sulle differenti visioni ideologiche. Il risultato non è stato un plebiscito, come probabilmente Erdogan si auspicava, ma sicuramente ha dimostrato la forza del partito che è riuscito a prevalere su una coalizione che in effetti raggruppava quasi tutte le altre forse politiche. Sul fronte della democratizzazione, il risultato referendario, ha messo in evidenza la pesante e delicata frattura politica e sociale del paese in bilico fra laicità e islamizazione, integrità territoriale e secessionissimo. La riserva espressa dal Commissario all’allargamento, Füle, circa la mancanza di un ampio dibattito pubblico prima della votazione referendaria- affermazione fra l’altro solo parzialmente vera, in quanto negli ulltimi mesi vi è stato un ampio ed aspro dibattito sulla riforma costituzionale – può essere letta proprio come un invito al Governo sul come condurre la riforma nei prossimi mesi. La ricerca di un ampio consenso e l’avvio di un dialogo costruttivo, tanto con le frange “kemaliste” e nazionalste che con  l’ala legale del movimento curdo, è indispensabile al Governo per dimostrare la sua credibilità e volontà di dare il via ad un nuovo corso, tanto sul piano della politica interna che internazionale.

* Sara Bagnato è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Perugia)

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice, e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”


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